ISBN: 9788822763891
Edito da Newton Compton Editori il 6 January 2023
Genere: Autobiografico, Biography & Autobiography / Personal Memoirs, Fiction / Historical / General, History / Modern / 20th Century / Holocaust, romanzo storico
Pagine: 288
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Non sapevo cosa fare. Nessuno degli altri bambini nella mia baracca sapeva cosa fare. Fuori il rumore era terrificante. Non avevo mai sentito niente del genere. Sparavano senza sosta. Raffiche e colpi singoli. Le pistole e i fucili facevano rumori diversi. Avevo visto e sentito entrambi in azione da vicino. I fucili emettevano una sorta di schiocco, le pistole qualcosa di più simile a uno scoppio. Il risultato era identico. Le persone cadevano a terra e sanguinavano. A volte gridavano. Altre accadeva così in fretta che non riuscivano a emettere alcun suono, per esempio quando venivano uccise con un colpo alla nuca. Altre volte ancora, avevano appena il tempo di tremare e gemere e gorgogliare. Era la cosa peggiore. Il gorgoglio. Le mie orecchie lo detestavano. Ogni volta desideravo che finisse il prima possibile. Per loro e per me.
Da qualche parte fuori dalla baracca si sentivano schiocchi, scoppi e ratatà, ratà tatatà. I rumori rapidi erano le mitragliatrici. Avevo visto in azione anche quelle. Conoscevo i danni che provocavano. E mi terrorizzavano.
La bambina di Aushwitz, la trama
Tola Grossman nasce a Gdynia, in Polonia, nel 1938, un anno prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. Quando il paese viene occupato dai tedeschi, lei ha 2-3 anni e vive nel ghetto ebraico appena istituito di Tomaszów Mazowiecki con i suoi familiari. Il primo ricordo di Tola (che si fa chiamare in seguito Tova) è il tavolo della cucina di casa sua al di sotto del quale trascorre la maggior parte del suo tempo. Infatti, durante l’occupazione tedesca, il ghetto viene progressivamente isolato dal resto del mondo e le rappresaglie nei confronti degli ebrei si fanno sempre più violente. La bambina ascolta le conversazioni dei genitori che commentano le violenze, le esecuzioni, le condizioni igieniche sempre più precarie del ghetto a cui avevano tolto persino l’energia elettrica.
Una delle prime limitazioni imposte dai tedeschi fu toglierci l’elettricità. La privazione di questa comodità della vita moderna ci stava facendo sprofondare verso una morte lenta e dolorosa. E non c’era nemmeno una rete fognaria. Ci ordinarono di apporre tende o schermi alle finestre che si affacciavano sui quartieri ariani. Il senso di isolamento e segregazione dal mondo esterno era rafforzato da ogni nuova restrizione. Non solo non dovevamo più guardare i nostri vicini polacchi, ma ci veniva negata anche la luce del sole mentre tornavamo indietro nel tempo fino al Medioevo. Ai polacchi fu ordinato di oscurare le finestre che si affacciavano sul ghetto, così che non potessero vedere cosa stava succedendo e informare il mondo esterno. Badate bene, molti polacchi a Tomaszów erano antisemiti. È possibile che alcuni di loro godessero delle nostre sofferenze. Almeno le tende li privavano di quel piacere.
I genitori Reizel e Machel fanno di tutto per proteggere loro figlia e fin da subito le danno consigli per la sopravvivenza: non piangere o restare immobile durante le ispezioni e il controllo dei documenti, essere il meno possibile sopra le righe.
Il 31 ottobre 1942 Tova e la sua famiglia riescono a scampare a una prima selezione di ebrei costretti alla morte e deportati. Reizel viene quindi costretta a selezionare gli oggetti personali dei deportati o degli uccisi che i nazisti vogliono recuperare e viene aiutata dalla bambina.
L’opera di annientamento diventa sempre più feroce. La famiglia viene obbligata dapprima a traslocare in un campo di lavoro a Starachowice e dopo esser divisa è caricata su un treno bestiame in condizioni disumane alla volta di Auschwitz, dove Tova sperimenta le atrocità del campo. Dalla fame ai morti di inedia, dagli esperimenti sui bambini alle violenze e le morti sul lavoro forzato, alla fortuna di essere scampata alla camera a gas: l’autrice racconta la sua straziante avventura di bambina all’interno del campo di concentramento più simbolico dell’Olocausto, durata dall’autunno del 1944 alla liberazione dei sovietici del 1945.
La testimonianza si fa particolarmente dura in queste pagine: Tova Friedman e Malcolm Brabant raccontano le vicende in manier asciutta, con il punto di vista di una bambina oramai abituata alla disumanità delle deportazioni, umiliazioni e uccisioni tedesche senza sminuirle o banalizzarle.
C’erano notti in cui mi svegliavo e rimanevo pietrificata. Una volta, due SS entrarono nella nostra baracca nel cuore della notte quando tutti gli altri dormivano, ma io ero sveglissima. Li guardai con orrore mentre passavano da una cuccetta all’altra, scrutando i bambini. Non capivo cosa stessero facendo. Pensavo che stessero cercando gemelli per conto dell’Angelo della morte, Josef Mengele, il medico nazista, tristemente noto per aver condotto esperimenti disumani sui prigionieri. Il laboratorio di Mengele era vicino alla nostra baracca, separato soltanto da una recinzione di filo spinato.
Il libro non si ferma a raccontare la tragedia dell’Olocausto ma anche le conseguenze sulla vita dei sopravvissuti, l’antisemitismo ancora strisciante in Europa alla fine del secondo conflitto mondiale e le ricadute sociopsicologiche della Shoah.
Tova si rifa una vita lontano dall’Europa, tra Stati Uniti e Israele e finalmente trova la sua strada nel dare assistenza agli anziani, che lei non aveva conosciuto da piccola perché furono tra i primi a essere sterminati dai nazisti.
Note di stile
Il libro è godibile e la scelta narrativa di aprire il racconto con un salto in avanti e poi tornare indietro ci introducono nella storia come in una ouverture di un melodramma: la storia parte da Aushwitz per poi riprendere da principio, dal ghetto. Periodi brevi e tono colloquiale aiutano la lettura rendendola scorrevole. Consigliato per chi vuole una testimonianza diretta e intima sulla Shoah.
Essere circondata da una famiglia in espansione e da una cerchia di amici sempre più ampia mi aiutò a guarire dalle ferite dell’Olocausto. Non potevo sostituire coloro che erano morti. Ma adesso la vita stava acquisendo un vero significato, soprattutto con l’arrivo di una nuova vita. Il senso di appartenenza arricchì la nostra esistenza, così come le amicizie durature.