Come possono dialogare arte e tecnologia? Spesso sentiamo parlare di questi due concetti in termini antitetici e il dibattito è tutt’altro che concluso.
Un contributo a questo dialogo arriva senz’altro da Marco Reichert, artista tedesco capace di essere artista e programmatore allo stesso tempo, attraverso opere che prevedono da un lato una manualità classica e pittorica, dall’altro il contenuto prodotto da macchine che lo stesso artista programma, ad estensione della sua opera più tradizionale.
Il risultato è una serie di quadri che sono stati in mostra alla Ribot Gallery di Milano, in cui spazi vuoti o astratti si intersecano con figure rappresentative e rappresentazioni di dati. L’effetto è un melting pot visuale che coinvolge lo spettatore in questo dialogo di elementi diversi.
A tal proposito Marco Reichert ci racconta cosa c’è dietro a questa conversazione visuale.
Come nasce l’idea di fondere la tua manualità con le tracce pittoriche impresse sulla tela da macchine progettate e programmate da te?
«In realtà all’inizio non pensavo di sviluppare l’idea così come è oggi. Ho iniziato anni fa con un’auto telecomandata e un pennarello attaccato ad essa.
La facevo andare su una tela di grande formato e dipingevo a una distanza che mi consentiva di avere vista sull’intero spazio di lavoro.
In verità non era un concetto di collegamento tra uomo e macchina, era un uso intuitivo di uno strumento durante il processo di pittura che si è sviluppato ed evoluto nel tempo.
Da allora è stata, ed è tuttora, una routine divertente con cui giocare e “reagire” a ciò che la macchina è in grado di fare e inventare nuove parti per ottenere qualcosa di nuovo. Sono stato felice quando ho capito che potevo collegare due elementi di interesse nella mia vita, dal momento che ho studiato informatica prima di studiare arte.
Le sequenze di pittura sono più o meno basate sullo stesso processo originario, con la differenza che una parte del processo ora è più digitale. Il fatto che io non sia un ingegnere o un ottimo programmatore fa sì che queste macchine- e quindi i tempi di esecuzione dei miei dipinti – non siano perfettamente controllabili. E’ sfidante e appagante allo stesso tempo».
La tua mostra si intitola ‘of ants and bees’, un chiaro riferimento alla natura. Con le tue opere intendi in qualche modo ricrearla? E’ presente anche una denuncia del cambiamento climatico in corso?
«Il titolo può sembrare fuorviante. In realtà è un riferimento a una citazione di Jonathan Meese che in un’intervista per la tv ARTE parla degli ultimi istanti di un dipinto prima che sia finito. L’artista passa di pittura in pittura con un secchio di vernice e fissa gli ultimi segni quasi senza pensarci. Parla del rischio di complicare eccessivamente l’opera in questo momento finale, del pericolo di “uccidere” il dipinto pensandoci troppo.
È più un atto di “reinriechen” (inalare l’odore di qualcosa) come le formiche e le api che si orientano attraverso i sensi, spesso l’olfatto. Allo stesso modo Meese avvicina la testa e il naso da un dipinto all’altro. Un processo intuitivo».
Nelle tue opere compare spesso un pattern che somiglia sia all’impronta digitale umana, sia ad una testa e agli anelli di un albero. Hai affrontato anche in passato il rapporto tra uomo e natura? Come?
«Penso che sia impossibile non relazionarsi con il proprio ambiente e non riflettere su ciò che ti circonda nelle tue opere. Nel mio caso la riflessione riguarda il rapporto tra uomo, natura e macchine.
Da un lato sono molto interessato alla materia pura e grezza e alle sue caratteristiche, alle qualità di ogni singolo componente e ingrediente dei miei dipinti, dall’altro mi piace molto costruire robot e codificare. Penso che i miei lavori siano una specie di risultato di entrambi. Mi piace quando questi due mondi si scontrano e si fondono. Ad esempio, ci sono parti delle mie forme basate su linee che sono squilibrate e disturbate dai dati che raccolgo scansionando il terreno e le superfici dei boschi con uno scanner 3D».
Ci sono esperienze, libri, film che ti hanno ispirato?
«Sicuramente oggi posso affermare che il libro e il documentario che forse ha avuto il maggiore impatto su di me è stato “Cyborg” di e sul Dr. Steve Mann del 1999. È il “padre dei dispositivi indossabili”. Immagino che ciò che mi colpisce sia il modo in cui Mann fonde la sua vita quotidiana, i suoi sensi, l’arte, la scienza e la tecnologia in qualcosa in divenire. Questo è un argomento molto interessante per me da quando ero un adolescente. La questione, al tempo fantascientifica, è diventata in qualche modo la nuova normalità nell’ultimo decennio grazie agli smartphone e tutti i suoi effetti collaterali positivi e negativi».
Su quali temi ti concentrerai nel prossimo futuro?
«Quello che mi piace davvero del mio modo di lavorare degli ultimi anni è che ho sempre la sensazione di essere all’inizio di qualcosa, di aver analizzato solo la punta dell’iceberg del tema dell’incontro tra tecniche artistiche vecchie di secoli (e il modo di percepirle) e tutte le conoscenze e le tecnologie disponibili che siamo in grado di utilizzare ora.
Sono sempre alla ricerca di nuove opportunità che siano strumenti, programmi e materiali appena sviluppati in generale, da combinare in qualcosa di visivamente soddisfacente e qualcosa che abbia il potere e l’impatto di sorprendere me stesso».
L’artista: Marco Reichert
Marco Reichert (Berlino, 1979) vive e lavora a Berlino. Ha studiato pittura alla Kunsthochschule Berlin Weißensee e tecnologie dell’informazione alla Humboldt-University, entrambe a Berlino. Sue mostre personali e collettive si sono tenute presso prestigiose istituzioni e gallerie internazionali, fra queste: Circle Culture Gallery, Amburgo, 2021; Hoto, Berlino, 2021; Bender Gallery, Asheville, 2021; Circle Culture Gallery, Berlino, 2020; Gallery Benoni, Copenaghen, 2020; KH7artspace, Aarhus, 2018; Kalashnikovv Gallery, Berlino, 2017; The Art Scouts, Berlino, 2016; Kunstverein Weinheim, Collection Baumgärtner, Weinheim, 2014; Herbert-Gerisch Stiftung, Neumünster, 2014; Georg Kolbe Museum, Berlino, 2011; Freies Museum Berlin, Berlino, 2010; Künstlerhaus Bethanien, Berlino, 2009.