di Valentina Innocenti
Coraggiosa nei presupposti, drammaturgicamente rigorosa, visivamente sorprendente Do Ut Des, è un’opera prima della sceneggiatrice Monica Carpanese che ne firma la regia in collaborazione con Dario Germani.
“Mozzafiato” per i cultori del thriller; profondo, intenso e a tratti malizioso per gli amanti dell’introspezione, il lungometraggio suscita interesse e curiosità tra gli esperti del settore.
Il titolo, che infonderebbe una buona dose di ansia- giustificata– in ogni sceneggiatore, prevede una sfida – indubbiamente vinta – nella contestualizzazione, nientemeno, di una locuzione latina, estrapolata da una formula giuridica e intesa oggi, quale scambio di favori reciproci dai discutibili risvolti etici.
“Compiremmo con la stessa leggerezza determinate azioni se avessimo la certezza di ricevere un uguale trattamento? – commenta Monica Carpanese– Non è una battuta del film“.
Oltre a rivelare la domanda centrale della storia, la dichiarazione esprime l’intenzione di aderire alla natura della Settima Arte, secondo cui il “parlato” vale meno di un rumore!
Soprattutto quando – come in questo caso – i temi “imponenti”, rischiano di eccedere nella retorica o, ancor peggio, di imporsi con monolitiche deduzioni.
Ma lo script di Do Ut des salta ogni ostacolo puntando sul connubio di elementi eterogenei, classici e contemporanei.
Una trama verista, essenziale, credibile ma non prevedibile (un uomo di successo è travolto da un “gioco” in cui il Bene e il Male si confondono); spinta dall’ alternanza di suspense e sorpresa, sostenuta dai meccanismi dei generi (neo noir, thriller, erotico, drammatico), scevra di stereotipi e, soprattutto capace, di un epilogo che si apre a un caleidoscopio di riflessioni.
La regia completa La parte espressiva. La macchina da presa, come un invisibile ma mai compiaciuto voyeur, frammenta la visione tra dinamicità di azione e staticità dei luoghi; narra il tormento attraverso i tagli di luce e l’uso espressivo del colore e suggestiona per la scelta di effetti sonori di forte impatto emotivo.
E se è innegabile che alcune scene possono scuotere per la violenza psicologica, è pur certo che il cinema, nato come “finestra aperta sul mondo”, non può rispondere della violenza insita nella società stessa… semmai, la nota, la osserva e infine… la rappresenta!