La valorizzazione delle opere d’arte passa sicuramente dal mettere l’osservatore nelle condizioni di fruire al meglio dei capolavori. E una migliore fruizione passa da un elemento imprescindibile: la luce. Per illuminare una sala di opere non basta solo accendere o piazzare punti luce davanti ai manufatti artistici: per progettare l’illuminazione di una mostra o di un museo ci si rivolge a una figura specifica, il light designer. Il suo lavoro può fare la differenza nel successo di una mostra o di un percorso museale, una figura molto importante il cui lavoro viene dato spesso per scontato. Ma cosa fa nello specifico un light designer? E qual è il suo processo di lavoro? L’ho chiesto a uno dei più apprezzati designer della luce d’Italia: Francesco Murano, autore del libro “L’illuminazione delle opere nelle mostre d’arte” edito da Maggioli, un prezioso manuale per la corretta illuminazione del nostro patrimonio artistico. Murano tra l’altro ha curato l’illuminazione della mostra su Van Gogh a Palazzo Bonaparte di Roma fino a marzo 2023.
Qual è stato il percorso che l’ha portata a diventare light designer?
“Il mio rapporto con lo studio della luce è iniziato a 14 anni come fotografo dilettante, passione che ho coltivato fino alla laurea in architettura, a 25 anni. Dopo l’università ho frequentato la Domus Academy a Milano dove insegnava il gotha del design milanese, da Sara Bellini a Marco Zanuso, e tanti altri. Lì ho incontrato Clino Trini Castelli, il massimo esperto del design primario: il ramo che si occupa degli elementi immateriali, quindi progettazione della luce, dei suoni, degli odori, delle texture e del microclima. Queste erano le attività su cui ho lavorato e per la mia tesi di master mi sono concentrato sull’illuminazione del Lingotto di Torino per il Salone delle automobili: da lì ho iniziato a occuparmi di luce.
Inizialmente ho progettato apparecchi di illuminazione per una ditta famosa, la Skipper, che aveva in catalogo le lampade di Bruno Gecchelin e Ettore Sottsass, dopodiché mi sono concentrato su progetti di illuminazione di edifici e di interni, fino a quelli delle opere d’arte. Nel frattempo, ho conseguito il dottorato di ricerca in disegno industriale al Politecnico di Milano con una tesi che si chiamava “Le figure della luce”. Da allora ho illuminato più di 150 mostre, concentrandomi sulle grandi esposizioni. Sono molto vicino all’architettura, ma non l’ho mai praticata veramente.
Sono membro della Scuola di Design, nonché del laboratorio “Luce e colore” del Politecnico di Milano. Ho sempre coinvolto i ragazzi e le loro tesi sul progetto di dispositivi luminosi (alcuni ex studenti hanno ottenuto anche Il Compasso d’Oro Giovani per i loro progetti). Adesso al Politecnico insegno nei master in Lighting Design al POLI.design”.
Qual è stata la prima mostra che di cui ha curato l’illuminazione?
“È stata una mostra di Hopper a Roma, non tanto tempo fa, perché ho cominciato questa professione nel 2010, però avevo già un bagaglio enorme alle spalle. Dal momento che non mi ero mai avvicinato all’illuminazione artistica, ho provato tutte le lampadine che c’erano sul mercato fino a quando ho visto che se mischiavo due lampadine, una calda e una fredda i colori si percepivano meglio e quindi ho iniziato con questo metodo di miscelazione della luce. Da lì in poi è andata bene: la mostra è piaciuta e dal momento che era organizzata da Arthemisia, che realizza numerose mostre importanti, ho continuato a lavorare con loro”.
Un’altra mostra di cui ha un bel ricordo?
“In genere mi piace quando c’è una situazione impossibile. Ad esempio, quando ho illuminato Giorgione a Venezia. Qui c’era un problema grosso, non c’era proprio l’impianto di illuminazione nella sala dov’era esposta “La tempesta” e l’ho illuminata dall’esterno. La sala aveva un lucernario in alto con una cupola e da fuori con un proiettore ho illuminato l’interno. L’effetto era affascinante perché non si capiva da dove provenisse la luce. Ricordo, inoltre, quando ho illuminato il Sarcofago di Pomona, alto 2 metri e mezzo, dove per far vedere una fanciulla che era distesa su questo sarcofago, in marmo, ho utilizzato uno specchio che permetteva sia di illuminare il sarcofago sia la fanciulla. Diciamo che le sfide mi divertono”.
Fino a luglio si è tenuta la grande mostra “Superbarocco. Arte a Genova da Rubens a Magnasco” alle Scuderie del Quirinale di Roma, curata da Piero Boccardo, Jonathan Bober e Franco Boggero, di cui hai gestito l’illuminazione. Ha trovato delle difficoltà particolari? Il barocco è impegnativo perché gioca molto sugli effetti…
“Nel Seicento ci sono stati grandi maestri della luce. Lo stesso Bernini si è interessato di illuminazione mettendo a fuoco la scalinata di Trinità dei Monti. Gli architetti del Sei-Settecento sono stati quelli che più di tutti si sono anche interessati agli Spettacoli e agli spettacoli di luce. Io ho scritto un libro su questo, si chiama “Breve storia della Luministica” che, dall’Antica Grecia fino al 1900, rintraccia tutti gli episodi in cui la luce è stata utilizzata nello spettacolo. Tutti pensano che la luce nello spettacolo sia stata introdotta dopo la scoperta della lampadina; invece, non è vero perché già i Greci la utilizzavano, seppur non disponendo dell’elettricità”.
Sono aspetti che di solito lo spettatore percepisce, quando si osserva un’opera. Ci accorgiamo dell’importanza dell’illuminazione solo quando un’opera non è ben illuminata, paradossalmente.
“La luce, come dice Aldo Masullo, è come il respiro: ce ne accorgiamo solo quando manca. È un elemento naturale, e ci sembra tale anche quando non lo è: è il più artificializzato di tutti gli elementi naturali. Le difficoltà alla mostra Superbarocco erano concentrate sulle grandi tele. A volte questi capolavori sono così grandi da arrivare quasi a livello dei binari. Quindi bisogna stare molto attenti perché in quei casi gli abbagliamenti e i riflessi molesti sono ricorrenti, soprattutto con i dipinti ad olio su tavola, che con i neri diventano degli specchi.
C’è un primo livello di illuminazione, di conoscenza di questa disciplina che riguarda la correzione di errori che io definisco ‘ortografici’: le ombre, i riflessi, così via… Il secondo livello è “sintattico”, è quello del rapporto delle opere tra loro, quindi con l’ambiente e l’illuminazione di quest’ultimo. In pratica non ti interessi soltanto delle opere, ma anche di come l’ambiente illuminato favorisce la fruizione dell’opera. E poi c’è il terzo livello che è quello stilistico, in cui ognuno mette qualcosa, il tocco personale che differenzia i lavori tra professionisti, perché ognuno lavora in maniera diversa”.
Ha illuminato la grande mostra personale “David La Chapelle. I Believe in Miracles” al Mudec di Milano, dove le opere erano fotografie. Come ha cercato di limitare l’effetto del vetro?
“Sì, le fotografie generalmente sono sottovetro e quindi lucide, ci sono problemi sia di riflessi diretti sia di riflessi di un’opera nell’altra, quando sono contrapposte. È un problema che spesse volte si deve affrontare, ci vuole un po’ di pazienza. La luce giusta la si cerca anche pragmaticamente. Io faccio i miei calcoli, posiziono in fase di progetto gli apparecchi, ma nella pratica c’è sempre qualcosa da affinare o aggiustare. Il lavoro fatto con La Chapelle è stato interessante perché lui era presente all’allestimento, abbiamo lavorato insieme sistemando l’illuminazione anche in base alle foto che voleva mettere in risalto. Io e l’artista abbiamo opportunamente studiato e ampiamente disquisito sulla quantità di luce da riservare ad ogni opera. Ciò ha comportato il dover/voler tornare più volte sulla stessa foto, alla ricerca di un rapporto armonico e soggettivo tra i quadri in mostra, privilegiandoli a volte per la loro storia, altre per colori, ma anche per emozioni ad essi correlati”.
In quel caso c’era anche la presenza dell’autore, che ovviamente per un quadro del barocco è impossibile avere. Però per un’artista contemporaneo immagino ci sia soddisfazione nel lavorare col curatore ma anche con l’autore delle opere.
“Sono soddisfazioni che non hanno prezzo, in questo caso ancora di più. I fotografi sono dei maestri dell’uso della luce. C’è una comunanza tra il mio lavoro e quello del fotografo, ma anche qualche differenza: nell’opera del fotografo non si vedono gli apparecchi, non si vedono i dispositivi, ma essi sono alle spalle, come a teatro. Nell’illuminazione museale, invece, devi pensare che la gente passa in mezzo agli apparecchi, c’è un approccio diverso. Mentre una foto la si vede soltanto, in una mostra ci si muove tra le luci e ci possono essere dei problemi che la fotografia non prevede”.
Un’altra mostra che ha seguito di recente è stata “Monet - Capolavori dal Musée Marmottan Monet di Parigi“, a Palazzo Ducale di Genova.
“Era la terza volta che mi sono occupato di illuminare Monet, ma è sempre un’emozione. Gli impressionisti son quelli che hanno fatto la rivoluzione copernicana della luce, prima di loro la luce era al servizio dell’opera, cioè la si usava per illuminare qualcosa. Con loro invece è il quadro a servizio della luce che diventa elemento fondamentale, il soggetto degli impressionisti, è bello illuminarli perché loro parlano di luce”.
Due anni fa, nella primavera c’era stata ai Musei capitolini la mostra “Il tempo di Caravaggio”, allestita durante il lockdown. Come avete lavorato, cercando di superare le problematiche delle restrizioni sanitarie?
“In un primo momento le restrizioni non mi consentivano di raggiungere Roma. L’ho illuminata praticamente in remoto grazie ai miei collaboratori, Doddo Arnaldi e Maurizio Gigante: io da Milano con il computer li seguivo e loro illuminavano le opere. Poi per fortuna, “Il fanciullo di Caravaggio”, l’opera più importante, ho avuto la possibilità di illuminarla in presenza. Prima dell’apertura della mostra, ho ricontrollato sul posto tutte le luci ed eseguito personalmente i puntamenti sull’opera del Caravaggio. Ho usato una tecnica che utilizzo spesso: illumino con una luce fredda la parete sulla quale è collocata l’opera, poi con la luce calda l’opera stessa, perché così si aumentano le cromie, è una tecnica poco conosciuta”.
A proposito di tecnica, come avviene il processo di progettazione e allestimento delle luci?
“Ricevo dal progettista dell’allestimento la planimetria, di cui ha discusso con il curatore, e si fa un briefing per capire qual è il taglio che si vuol dare. Banalmente in genere se sono opere di pittura antica- classica si tende a una luce più calda, più racchiusa sulle opere, mentre per gli autori contemporanei o del secondo 900 – ad esempio per gli astrattisti – si preferisce una luce un po’ più fredda, un po’ più ampia, più ambientale. Definito il taglio, faccio un inventario degli apparecchi disponibili, perché a volte gli apparecchi vengono forniti dal museo o dal luogo dell’esposizione, altre volte invece bisogna portarli, altre ancora vanno integrati. Successivamente realizzo la pianta delle luci, faccio i calcoli dei lux per vedere se gli illuminamenti sono come mi immaginavo. Dopodiché mi preparo a stravolgere il mio piano perché capita che il quadro l’hanno spostato, l’ordine non è quello e nemmeno l’apparecchio…”
Definiamole correzioni in corso d’opera
“Assolutamente. Diciamo io faccio tutto il mio, mi avvicino a come dovrebbe essere, però poi gli ultimi tre giorni intervengo perché c’è sempre qualcosa che non corrisponde molto al progetto iniziale”.
C’è un artista in particolare di cui vorrebbe illuminarne le opere?
“Leonardo da Vinci: mi piacerebbe illuminare il Cenacolo. Ho già illuminato proprio lì davanti dei disegni preparatori di Leonardo della collezione Windsor, della famiglia reale inglese. Ho visto L’Ultima Cena e volevo illuminarla in modo diverso da adesso. Vorrei illuminarla dall’alto di lato, che è la posizione naturale in cui dovrebbe essere illuminata, non dal basso com’è adesso”.