Con un percorso artistico che intreccia fotografia, scrittura e un background da biologo nutrizionista, Angelo Nairod si distingue per la sua capacità di trasformare il colore in un linguaggio emotivo e simbolico. Le sue opere esplorano l’intimità, la sensualità e la sofferenza, offrendo un’interpretazione personale e innovativa del nudo e delle dinamiche sociali. Ha esposto le sue fotografie in diverse gallerie internazionali e le sue pubblicazioni affrontano con sensibilità e profondità il tema della diversità. In questa intervista, racconta il suo percorso e la sua visione artistica.

Ti dividi tra mondi diversi: la nutrizione, la fotografia e la scrittura. Come riesci a bilanciare tutto?
«Non è sempre facile, ma amo tutto ciò che faccio. Ci sono momenti in cui il mio lavoro da nutrizionista richiede più attenzione, altri in cui sono più concentrato sulla fotografia. Finché c’è voglia ed energia, lo faccio con entusiasmo.»
Parlando di fotografia, una delle prime cose che colpisce nelle tue opere è l’uso dei colori. È una scelta consapevole?
«All’inizio no, ma col tempo ho capito che il colore è diventato una cifra stilistica. Mi hanno fatto notare che le mie foto a colori avevano una forte personalità e da lì ho sviluppato un percorso più consapevole. Il colore ha un’energia che cattura lo spettatore e comunica emozioni profonde.»

Uno dei temi che affronti spesso è l’amore. C’è un legame tra l’uso dei colori forti e questa tematica?
«Sì, il colore per me è vitalità, intensità, passione. L’amore è tutto questo e anche di più. Ho cercato di esprimere non solo la bellezza dell’amore, ma anche il dolore che può portare, trasformandolo in qualcosa di visivamente potente.»
Questo concetto è stato centrale anche nella tua mostra Pianto di Colori. Com’era nata questa idea?
«Esatto. L’idea era quella di rappresentare la sofferenza attraverso il colore, ribaltando il concetto tradizionale che associa il dolore a tinte scure. La sofferenza può essere un passaggio per la rinascita, un processo di trasformazione. Volevo mostrare corpi e volti che hanno attraversato momenti difficili e ne sono usciti con una nuova energia vitale.»

Le tue opere hanno anche una forte componente sensuale e un modo innovativo di rappresentare il nudo. È una scelta mirata?
«Non è mai stato qualcosa di studiato a tavolino, ho sempre seguito il mio istinto. Il nudo spesso viene visto solo attraverso il filtro del bianco e nero, io invece ho voluto sperimentare con i colori, ribaltando un po’ i canoni tradizionali. Alcuni lo hanno apprezzato, altri meno, ma per me l’importante è essere riconoscibile.»
Ti ritrovi anche nella tua scrittura?
«Sì, nella scelta delle tematiche sicuramente. Nei miei libri c’è la stessa attenzione per il dolore, per l’amore e per la diversità, ma il tono è più riflessivo rispetto alla fotografia. L’impatto visivo della foto deve essere immediato, mentre la scrittura permette un’elaborazione più profonda.»

Una delle tue prime esperienze è stata la collaborazione con Nicola Lecca per il suo romanzo Il Corpo Odiato. Cosa ha significato per te?
«Moltissimo. Ero giovanissimo, appena diciannovenne, e l’anoressia trattata nel libro è stata un tema che poi ho approfondito anche nel mio lavoro da nutrizionista. Quella mostra è stata un punto di partenza importante, sia dal punto di vista artistico che umano.»
Hai mai trovato punti di contatto tra la tua carriera da nutrizionista e quella da artista?
«In realtà cerco di tenerle separate, ma entrambe hanno a che fare con la relazione umana. Nella fotografia, specialmente nel nudo, si crea una forte intimità tra fotografo e soggetto, e lo stesso avviene nella nutrizione: chi si rivolge a me spesso ha un rapporto complesso con il proprio corpo e richiede fiducia e comprensione.»

Nei tuoi scatti ci sono anche molti autoritratti, alcuni piuttosto intimi. Cosa rappresentano per te?
«Più che una ricerca artistica, per me è una forma di introspezione. Alcuni autoritratti sono entrati nelle mie mostre, ma la maggior parte sono un diario visivo, un modo per esplorare me stesso.»
C’è una foto a cui sei particolarmente legato?
«Ce ne sono diverse, ma una delle più iconiche è quella con i palloncini rossi. Non rappresenta chi sono oggi, ma una parte importante del mio percorso. All’epoca avevo un aspetto androgino e quella foto ha segnato un momento di grande cambiamento per me.»

E una che non rifaresti?
«Probabilmente uno scatto realizzato sui binari con una modella, in cui simulavamo un amplesso. L’idea era esplorare il concetto di Eros e Thanatos, amore e morte, ma la paura che il binario non fosse davvero abbandonato mi è rimasta! Artisticamente la rifarei, ma con più sicurezza!»
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